Intervista a Luca Natalini, chef di Autem
di Gaia Soleri
Storie e Interviste | Del 03/06/2025 |

VISTA CUCINA. Nel ristorante Autem, Luca Natalini intreccia cucina di mercato, eleganza essenziale e gusto autentico, in un’atmosfera garbata e sognante. La sua è una visione di fine dining che mette l’ospite al centro, senza orpelli, ma con cura profonda. Fra suggestioni toscane e rigore francese, ogni piatto – come la sua iconica Pasta in bianco – racconta un’idea di semplicità colta, condivisa da una squadra che cresce insieme a lui.
Le risposte di Luca Natalini, chef patron di Autem a Milano
Che tipo di mentore sei?
Alla mia squadra di dodici persone garantisco una presenza costante e offro linee di pensiero con cui costruire l’evoluzione del lavoro e la creatività. L’attività di mentoring è la base per diventare un imprenditore di successo.
Cosa vuoi mostrare al cliente con la tua “cucina aperta”?
Vorrei comunicare qualcosa che ancora non è stato detto, l’autem (in latino: inoltre). Voglio far vedere la professionalità di un team, la serenità che regna in cucina, quell’armonia simile a una composizione musicale, dove ognuno suona la sua parte dentro un insieme definito da sala e cucina.
Come nasce un tuo piatto?
Ancora me lo chiedo. A volte da un ingrediente, altre da un ricordo, da una coincidenza o da tutte e tre. Il caso più semplice: vado al mercato, vedo un ingrediente, penso al suo gusto e costruisco l’abbinamento che più mi piace. Ma spesso il processo è più complesso ma anche casuale, come nel caso del mio bottone toscano: ispirato al crostino toscano, è nato da un raviolo con scarti di aragosta (che non ci convinceva) e da un paté di fegatini che stava preparando il capopartita. La somma delle idee di tutti noi ha creato il piatto. Chiedo sempre spunti al mio team.
Confermi le influenze francesi nei tuoi piatti?
Assolutamente. Le salse francesi offrono allunghi interessanti da cui prendo spunto. Ti faccio un esempio: il piccione - uno dei miei piatti più riusciti – all’inizio lo facevo con fondo alla francese, poi in chiave Autem l’ho proposto con un intingolo da arrosto all’italiana. Un sughetto dimenticato, risvegliato nella memoria.
Come sei arrivato alla tua pasta in bianco, signature dish dal 2018?
Sfruttando il preconcetto all’italiana: se non conosci qualcosa, te la spiego. Noi italiani siamo bravi a raccontare. La mia pasta in bianco spiazza: vedi solo spaghetti bianchi e asciutti, senza traccia di formaggio, ma appena li assaggi ti arriva una scossa. Effetto riuscito! La mia pasta in bianco è questa: spaghettini super al dente cotti in decotto di alloro e mantecati con vermouth alle prugne, aceto di riso e miele.

Qual è la tua pasta preferita?
La pasta in bianco! Fin da piccolo la adoravo: a casa si faceva uno spaghetto aglio, olio e peperoncino con parmigiano.
Come imposti il lavoro in cucina e in sala, considerando che il tuo personale si esprime in “stile Natalini”?
Non sono il tipo che assegna compitini. Cerco di essere un esempio, offro spunti per impostare il lavoro e faccio in modo che ognuno possa esprimersi al meglio. Il mio compito è individuare i punti di forza di ciascun elemento e fare in modo che vengano espressi nella maniera professionale che il cliente si aspetta in un certo tipo di locale. In pratica, do a questi ragazzi e ragazze la possibilità di realizzare il loro sogno insieme a me.
Cucina italiana o cucina francese: chi vince oggi?
Senza dubbio la cucina italiana, perché abbiamo una materia prima inesauribile, una cucina leggera, di giornata, che si racconta da sola. Ogni giorno il mercato detta il menu. Come da Autem.
L’esperienza gastronomica più illuminante?
Mi tocca citarne tre a parimerito: Piazza Duomo di Enrico Crippa, Maison Pic di Anne-Sophie Pic e L’Ambroisie di Bernard Pacaud, grande Maestro di salse e allunghi di gusto.
Hai mai incontrato uno chef modesto?
Sì, ce ne sono. La modestia è data dalla consapevolezza. Se sai dove sei e cosa fai, non hai bisogno di raccontarlo con vanagloria.
Il miglior insegnamento ricevuto da un mentore?
Un grande spunto di riflessione che mi offrì il Maestro Gualtiero Marchesi. Gli domandai: “chef, perché non tutti possono apprezzare l’alta gastronomia?” Lui rispose: “la cucina è come l’arte, non tutti la possono capire”. Col tempo ho rielaborato le sue parole cercando di fare una cucina che potesse piacere a tutti, lavorando costantemente per i clienti. Non regalo opere d’arte, bensì emozioni da gustare e puro godimento a tavola.
In fase di selezione del personale, cosa cerchi maggiormente?
La fame. Non quella di cibo, ma quella che dovrebbero avere tutti di arrivare a un obiettivo. Avere un sogno, uno scopo, che nel caso di Autem si realizza nella soddisfazione del cliente. In Italia ci sono ancora persone che hanno voglia di lavorare nella ristorazione e di emergere. Sappiate che ci sono ottime figure professionali in giro.
Cuochi si nasce o si diventa?
Puoi nascere con la passione per la cucina, ma solo dopo diventi cuoco e capisci quello che vuoi raccontare. Servono studio ed esperienze. Ogni giorno cerco di fare meglio del giorno prima.
Qual è l’ingrediente più sottovalutato nella cucina italiana?
L’olio di oliva come materia prima. Fai un grande spaghetto con un grande pomodoro e poi ci metti un olio qualsiasi? No, dai! Per me l’olio in un piatto deve essere un ingrediente principe.
Il piatto e il panino dell’infanzia?
Pasta in bianco e bruschetta, fatta con pane sciapo abbrustolito con aglio e pomodoro strusciato, olio e sale.
Mi dai la tua definizione di fine dining?
Per me è accogliere gli ospiti con garbo, coccolarli con discrezione, regalare un piacevole momento a tavola. È una serie di accortezze invisibili, ma fondamentali per renderli contenti dell’esperienza.
Il segreto di Autem?
Essere al servizio totale degli ospiti, renderli felici con il cibo e con la cortesia a tavola. Per farlo, studio costantemente gli ingredienti, annoto le nuove tendenze e le richieste della clientela.
Il tuo focus resta la cucina di mercato?
Assolutamente sì. Da Autem puntiamo a creare valore con questo approccio. Alla fine, in Europa siamo in due a fare reale cucina di mercato: Bruno Verjus a Parigi (classe 1959, due stelle Michelin e una Stella verde) e io. Per renderla tangibile, ho creato per i clienti le esperienze immersive “Take me to the market” (portami al mercato): colazione con me e il mio staff, visita al Mercato Agricolo di Porta Romana per selezionare insieme le migliori materie prime del giorno, preparazione dei piatti e pranzo finale. Il costo è di 129 euro, tutto compreso.
La vera arte di Luca Natalini risiede nella capacità di trasformare la semplicità in eleganza: ogni piatto è un racconto spontaneo, in cui gli ingredienti parlano con voce propria. La sua cucina di mercato, sorretta da tecnica millimetrica e sensibilità contemporanea, è un tributo a sapori autentici e golosi, tra radici italiane e slanci francesi. In questo equilibrio fra istinto e rigore, si compie ogni giorno il sogno di una ristorazione viva, colta, profondamente umana.
In pillole
Conosciamo lo chef Luca Natalini, toscano di nascita e francese d’adozione. Da Autem coltiva ogni giorno il sogno di una cucina di mercato elegante e golosa, fatta di accoglienza garbata e semplicità luminosa. Il suo fine dining? Un gesto gentile che lascia il segno.