Intervista a Masaki Okada, chef giapponese a Milano: robata, sushi e kaiseki
di Gaia Soleri
Storie e Interviste | Del 08/09/2025 |

Dalle Alpi giapponesi a Milano, lo chef Masaki Okada porta con sé l’essenza della cucina nipponica autentica. Maestro di kaiseki ed esperto di robata – l’antica griglia a carbone binchotan –, Okada ha trovato in Italia una seconda casa accogliente. In questa intervista lo chef rivela la sua filosofia in cucina: rispetto per gli ingredienti, rigore tecnico, equilibrio dei sapori, disciplina e profonda passione nel trasmettere l’arte culinaria giapponese. Possiamo assaggiare i suoi piatti da Katei a Milano e da Wen a Bergamo.
Le risposte di Masaki Okada, chef giapponese a Milano
Qual è il segreto del Robatayaki perfetto?
La robata è una cottura a fuoco diretto su griglia aperta - diffusa a partire dagli anni Cinquanta -, simile al barbecue ma legata alla tradizione dei pescatori di Hokkaido, che usavano i focolari per cuocere il pesce alla brace. Il primo segreto è proprio il carbone, che deve essere di prima qualità: in Giappone si utilizza il binchotan, purissimo, che brucia a temperatura costante senza produrre fumo. Poi conta saper scegliere la giusta posizione sulle griglie per ogni alimento (fuoco basso, medio, alto) in base al grado di cottura desiderato. Quanto alle marinature, possiamo farle prima o dopo la cottura, spennellando anche più volte – come nel caso dell’anguilla laccata (unagi kabayaki). Con la carne è molto efficace e saporita una semplice salsa a base di soia, sakè e mirin. Per padroneggiare la robata serve esperienza, che oggi cerco di trasmettere ad altri chef in Italia.
Qual è stata la tua formazione di chef in Giappone?
Sono nato a Hida-Takayama, nelle Alpi giapponesi, in una zona con fiumi, terme e un vulcano attivo. Ho iniziato questo mestiere all’età di 19 anni in un hotel della catena JR (Japan Railway) nella prefettura di Gifu, vicino a casa mia. Poi ho lavorato in altri hotel e in un ryokan, dove ho incontrato quello che considero il mio Maestro, Takahiko Tomishima: un bravissimo chef, esigente e molto preciso, che mi ha trasferito tutte le tecniche da utilizzare nella cucina kaiseki. Nella nostra professione, noi seguiamo il Maestro come si fa con la famiglia: Tomishima mi indicava dove andare e io mi presentavo nel posto da lui suggerito per imparare il mestiere.
Cosa ti ha spinto a venire in Italia?
Devo dire la verità, all’inizio non pensavo di lasciare il Giappone, ma un documentario televisivo sul Sud Italia mi ha affascinato. La natura, le vostre coste, la storia del vostro Paese hanno fatto sì che io partissi alla scoperta dell’Italia. Prima tappa Bari, poi Pescia, Genova e infine Milano, dove vivo tuttora con mia moglie. Devo dire che non è stato facile trovare lavoro 17 anni fa, anche per la lingua. Ma l’accoglienza a Bari è stata fantastica grazie alla generosità di un ristoratore pugliese appassionato del Giappone. Ho subito amato la Puglia: ottimi prodotti della terra e del mare, e un pubblico curioso che apprezzava la mia cucina giapponese.
Le tue esperienze in Italia?
Ho iniziato al ristorante Shodai (primo locale giapponese di Bari), poi un periodo a Pescia (PT) e successivamente in Liguria, dove ho imparato a cucinare italiano e a impastare pane e pasta. Nel marzo 2011, poco prima di aprire un locale a Genova, la notizia dello tsunami in Giappone mi ha sconvolto. Alla fine, lo stesso autunno ho deciso di partire e proseguire la mia carriera a Milano. Qui il mio curriculum è piaciuto allo chef Yoshinobu Kurio, che mi ha accolto in cucina (ristorante Yoshi). In seguito, ho lavorato in altri prestigiosi locali giapponesi, quali Iyo (2015-2017) ai tempi di Haruo Ichikawa e Finger’s Garden di Roberto Okabe. Attualmente presto consulenza continuativa in due ristoranti giapponesi, Katei a Milano e Wen a Bergamo, e sono docente di masterclass professionali per l’approfondimento di tecniche culinarie giapponesi.
Come ti ha accolto Milano?
Sono qui da 13 anni e ho visto crescere la curiosità per la cucina giapponese autentica. Milano è una città accogliente per gli stranieri, ma la mentalità sul lavoro è molto diversa da quella giapponese: da noi si lavora anche 18 ore al giorno, in un ambiente dove la precisione di ogni gesto e la pulizia sono fondamentali. Disciplina e dedizione sono valori essenziali, che in Giappone apprendiamo fin da piccoli.
Qual è il tuo comfort food?
Dipende dalla stagione. Durante l’inverno uno stufato di carne e verdure (nabemono), d’estate soba freddi. Ma nel mio cuore resta il cibo di mia madre: un piatto a base di polpa di soia ottenuta dalla produzione di tofu (okara), carote, funghi shiitake, alghe hijiki e brodo dashi.
Qual è la tua missione da Katei?
La proprietà del ristorante, Milano Restaurant Group (MRG), mi ha chiesto di rinnovare il menu secondo la mia filosofia in cucina: rigore tecnico di ispirazione tradizionale e armonia dei sapori. La proposta di Katei si focalizza su robata di carne/pesce/verdure e sushi (fra tartare, carpacci, roll e nigiri). A me interessa soprattutto far conoscere la cottura giapponese alla brace, poco nota in Italia. Molti pensano che i giapponesi mangino soltanto pesce crudo, ma non è così. Con la robata voglio mostrare un lato autentico della nostra cucina. Basta uno spiedino per innamorarsene.
I tuoi ristoranti preferiti a Milano?
In questa città è difficile scegliere un locale, perché ce ne sono tantissimi. A me piacciono posti genuini con cucina regionale, come le trattorie che fanno le ricette della nonna. Per me la materia prima è fondamentale. Devi pensare che sono stato fortunato ad iniziare la mia carriera a Bari, dove i prodotti della terra erano tutti buoni, a cominciare dai pomodori ciliegini. A Milano raramente ritrovo quei sapori genuini e ricchi di umami.
I miei ristoranti preferiti sono Nonna Maria Osteria romana e Locanda del Menarost. Amo anche El Hornero, un peruviano che offre cibo tradizionale con ottima carne alla brace.
La salsa di soia non è uguale per tutti: ce la spieghi?
Ogni zona del Giappone e ogni città ha la sua tipologia di salsa di soia. Faccio qualche esempio. A Kyushu dolce e un po’ scura; in montagna più salata; a Kyoto e Osaka usano una salsa di soia chiara (anche per non scurire il brodo dashi), a Tokyo quella più scura. A casa mia usavamo tamari (colore scuro e gusto morbido) per il sashimi e una salsa di soia bianca (base frumento) per condire il tofu.
Detto questo, faccio notare che in Italia voi siete abituati a una salsa di soia annacquata, che usate in eccesso con il sushi. Sappiate che quella originale giapponese – servita in pochi locali a Milano - è più saporita e quindi va usata con moderazione. In Italia, quando preparo le ricette delle mie salse, uso ingredienti originali, ma bilancio il gusto in base alle preferenze dei clienti. Per esempio: a Milano metto più alga kombu, mentre al mare metto più katsuobushi.
Perché la radice di loto è importante nella cucina giapponese?
Per noi è un cibo portafortuna, simbolo di purezza e rinascita. I caratteristici fori della radice affettata, consentendo di vedere oltre, aprono simbolicamente una finestra sul futuro. I giapponesi inseriscono sempre la radice di loto (renkon) nei pasti di Capodanno, matrimoni e altri eventi celebrativi. Può essere sbollentata e marinata in salsa di soia, cucinata in umido, fritta o alla griglia.
La ricetta veloce per l’uovo marinato?
In giapponese si chiama ajitsuke tamago. Uova bollite 6 minuti marinate per almeno cinque ore (in frigorifero) in marinatura a base di salsa di soia e mirin in rapporto 1:1. Queste uova sono indispensabili nel ramen e in altre pietanze della cucina giapponese moderna.
Come vedi la cucina kaiseki a Milano?
Gli italiani non sono ancora pronti ad apprezzarla appieno, ci vorranno anni. Si tratta di una componente importante della cucina giapponese, che include una degustazione di piattini crudi e cotti con antipasti. La mia idea di kaiseki da proporre al pubblico milanese è una versione semplificata - che certamente non include i soliti uramaki (che qui imperano nei ristoranti). Dopo l’esperienza omakase, manca la kaiseki: è il prossimo passo per Milano.
Piatti tipici delle quattro stagioni in Giappone?
- In primavera: hotaruika, calamaretti lucciola, grigliati con erbe di montagna e miso, fritti, oppure sbollentati e conditi con salsa sumiso.
- In estate: soba, somen, udon, anguilla e altri pesci d’acqua dolce in quota da fare alla griglia con sale, oppure come sashimi.
- L’autunno è la stagione dei funghi: alla griglia, nella zuppa di miso, nel chawanmushi, nella hot pot, funghi misti saltati con burro e soia. Al primo posto, i matsutake e gli shimeji. Altro piatto tipico autunnale: pesce d’acqua dolce grigliato al sale con le sue uova.
- In inverno: hot pot con salmone selvaggio (in Hokkaido), oppure con carne di orso, fagiano, o cinghiale (botan nabe), come si usa dalle mie parti. Appena cacciato, l’animale viene macellato con una tecnica simile a quella del pesce (ikejime). Adesso in Giappone c’è un boom di richieste di selvaggina anche nelle città, dove gli chef preparano queste carni nella maniera tradizionale.
In pillole
Conosciamo lo chef giapponese che vuole trasmettere la passione della robata tradizionale agli italiani. Da Bari a Milano, Masaki Okada ha lasciato il segno promuovendo una cucina kaiseki semplificata. Ingredienti di stagione, marinature e salse equilibrate. Cuore e tecnica.